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Siamo lieti di pubblicare il primo capitolo per gentile concessione dell'Autore:
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Di Eraclito si narra che attaccò gli Efesii che avevano mandato in esilio l'amico Ermodoro dicendo loro: "Gli Efesii, dai giovani in su, dovrebbero tutti impiccarsi per quello che è il loro merito e lasciare la città ai fanciulli" [1].
Si racconta poi che "alla fine, preso dal fastidio degli uomini, se ne andò a vivere sui monti nutrendosi d'erba e di piante selvatiche" [2]. Antistene, inoltre, ricorda che Eraclito rinunciò al regno in favore del fratello [3].
Questi tre fatti: apologia della fanciullezza, ritiro dalla vita pubblica, rinuncia al potere, segnano anche la vita e i discorsi dei saggi taoisti. Nel Tao Tê Ching la figura del bambino come prototipo di saggezza viene usata più volte e viene ripresa anche nel Chuang Tzu [4].
Nel Chuang Tzu troviamo anche un'indicazione per il ritiro dalla vita sociale: "Per chi vuole evitare di prendersi cura della forma nulla di meglio che rinunciare al mondo. Rinunciando al mondo è privo di legami, essendo privo di legami è corretto ed equilibrato, essendo corretto ed equilibrato consente alla forma di rinnovarsi, rinnovandosi tocca il limite dei suoi giorni" [5]. In questo passo emerge anche il senso profondo della fuga dal vivere "civile": essa infatti non è un puro e semplice abbandono, una rinuncia dettata soltanto dal risentimento, ma è un movimento di purificazione, un esercizio di áskesis, al fine di spezzare i legami della "forma", ossia le catene imposte da ruoli stereotipati, da rapporti di valore e di potere prestabiliti, da convenzioni valide solo perché iterate. Il quadro generale, in cui questa rinuncia alla vita comunitaria va inserita, è pertanto definito dalle parole: "Per l'uomo sommo non esiste l'io, per l'uomo sovrannaturale non esiste il merito, per l'uomo santo non esistono nomi". E’ chiaro allora il motivo per cui Chuang Tzu può affermare che "gli uomini santi si vergognano di governare" [7] : non perché in generale "la politica è sporca", ma perché in alcune circostanze storiche essa è praticata da uomini per i quali esiste solo il loro io, da persone che agiscono solo per acquistare "meriti" in forma di denaro o di gloria, ossia da individui che vivono "in nome di" qualcosa o qualcuno, e che considerano i nomi, le forme, le etichette delle cose come la verità delle cose. I saggi taoisti, al pari di Eraclito, non abbandonano la convivenza sociale e la vita politica sulla base di una motivazione ontologica o metafisica, ma perché, ad un certo punto, quando dominano i signori dell'io, i fanatici del merito, i drogati dai nomi, la socialità e la politica diventano invivibili: Eraclito, allora, va al tempio a giocare agli astragali coi bambini perché i suoi concittadini, gli Efesii, hanno esiliato Ermodoro, il Migliore; e i saggi taoisti si ritirano sui monti o in luoghi apportati quando la violenza feudale uccide la "Virtù della Vita comune" (shih wei thung tê) [8]. Tuttavia Chuang Tzu mette in guardia contro un pericolo assai comune, per il quale chi si ritira a vita nascosta rischia sempre di comportarsi ancora in base ai valori dell'io, del merito, del nome: "Aguzzare l'ingegno per rendere nobili le azioni, abbandonare il mondo per diversificarsi dal volgo, parlar alto per disapprovare astiosamente: lo si fa solo per mettersi al di sopra. Questo è quel che amano i letterati che si ritirano sui monti e nelle forre, gli uomini che disapprovano il mondo; destinati agli alberi secchi e alla corsa verso l'abisso" [9].
Vi è infine un'altra analogia tra il comportamento di Eraclito e quello dei saggi taoisti: l'esercizio del consumo minimo, l'áskesis contro lo spreco. Narra Temistio che gli Efesii, pur assediati dai Persiani, non riuscivano a por freno ai loro sprechi: a testimoniare che si può vivere con poco, Eraclito prese un.po' di farina d'orzo, la intrise d'acqua e si mise a mangiarla [10]]. E Chuang Tzu racconta che il saggio taoista Shih nan tzu visse conforme a queste parole: "Rendi minimi i tuoi consumi e scarse le tue brame ed anche senza provviste avrai a sufficienza" [11]].
Il confronto tra Eraclito e i saggi taoisti non interessa tuttavia né soltanto né in primo luogo gli aspetti biografici: anzi, interessa soprattutto i contenuti filosofici degli scritti che il pensatore greco e i saggi cinesi ci hanno lasciato. Un primo confronto riguarda i concetti di physis e di Tao. Contro la legittimità di questa prima e fondamentale analogia si potrebbe obiettare che, propriamente, Tao non significa "Natura", che in cinese si rende piuttosto con Tzu jan. Si può rispondere ricordando che Tzu jan significa letteralmente "ordine spontaneo" e che, proprio in tale accezione, si avvicina molto al significato di Tao che di solito viene tradotto con "via", ma che, con maggior rigore, andrebbe tradotto con "ordine della natura", come ha suggerito Needham [12]. "Ordine della natura" che, però, non va inteso quale sinonimo di "struttura statica", di "schema" d ella natura, né come insieme delle leggi di natura, ma piuttosto come ciò che fa essere ciascuna cosa, ciascun fenomeno e le infinite combinazioni di cose e fenomeni, così come sono. In questo "fa essere" non v'è traccia di un rapporto creazionistico: il Tao "veste e nutre le creature ma non se ne fa signore" [13] e "le fa vivere ma non le tiene come sue" [14]. Il Tao è dunque l'ordine immanente della natura, l'infinita forza creativa/distruttiva, ossia trasformatrice, della natura: si potrebbe dire sinteticamente che esso si identifica con la potenza generale della natura, assumendo "potenza" nell'accezione più vicina al senso etimologico originario di potentia, derivato da potis esse, esser capace. Ma Tao è termine che indica anche la natura propria, specifica, di ogni ente o insieme di enti, ovvero la qualità intrinseca di ogni fatto o insieme di fatti. In tal senso si potrebbe dir e che Tao si identifica con Tê che indica "virtù" non secondo un'accezione moralistica di "comportamento adeguato ad una norma etica", ma secondo un'accezione "biologica" che rende meglio il significato originario di virtus, di "capacità". Pertanto il Tao non è soltanto ciò che fa essere ogni cosa quella che è, ma anche il modo d'essere di ogni cosa: esso non è soltanto "il grande Tao" [15], il Tao come potenza generale, ma è, contemporaneamente, il Tao come potenza particolare, quello che fa sì che il cielo non si squarci, che la terra non si fenda, che la valle non si inaridisca, che le creature non si spengano, [16], quello che fa sì che "un trave può aprire una breccia, ma non può otturare un buco" [17]. Usando una terminologia cara alla più vieta scolastica filosofica si dovrebbe dire a questo punto che il Tao è contempor aneamente - ergo paradossalmente - Uno e molti, Universale e particolare, Generico e specifico, Trascendente e immanente. Ma, proprio dove la scolastica filosofica occidentale separa e definisce sulla base di opposizioni, sono da cercare, nelle differenze, le ragioni e le forze delle connessioni: per quanto riguarda il Tao, allora, appare chiaro che ogni cosa, realizzando se stessa, segue il proprio Tao e, seguendo il proprio Tao, realizza il "grande Tao". In un famoso aneddoto taoista il cuoco Ting dice al principe Wen-hui che si meraviglia per la sua abilità nello squartare un bue: "Ciò che il suddito ama è la via [ ...] La preferisce all'abilità. Quando il suddito cominciò a squartare buoi non vedeva altro che il bue, dopo tre anni già non vedeva più il bue intero, oggi lo considera con lo spirito non lo guarda cogli occhi. Mi astraggo dalla conoscenza dei sensi e procedo secondo la volontà dello spirito, attenendomi ai principi natural i: attacco i grandi interstizi e m'apro una via nelle grandi cavità, seguendone il corso naturale" [18]. Ciò significa che seguendo quello che, malamente, si potrebbe definire "Tao dell'oggetto", ossia seguendo "il corso naturale" degli interstizi e delle cavità, il cuoco realizza il "grande Tao"; non solo: nel momento in cui realizza il "Tao dell'oggetto" e il "grande Tao", il cuoco realizza anche la propria natura, estrinseca la propria potentia, pratica la propria virtus o Tê , realizza, insomma, il proprio Tao. In effetti, col tagliare nel migliore dei modi ossia seguendo la "natura della cosa" il cuoco realizza anche la propria natura, e, nell'eseguire queste due "operazioni", ne esegue in realtà una sola: realizza il grande Tao, cioè "è nella Via". La grande via non è infatti separata dalle "vie" particolari: queste non si danno se non c ome segni di quella, ma quella non esiste se non nell'infinita varietà di queste. Usando una terminologia tratta dalla migliore tradizione filosofica occidentale, si potrebbe dire che il "grande Tao" è la condizione di possibilità per ciascun Tao particolare: che la grande Via è il trascendentale di ogni "via" individuale. Nel Lieh Tzu ciò viene spiegato molto bene, anche senza l'aiuto dei concetti kantiani. L'autore elenca venti tipi di comportamento umano, divisi in cinque gruppi di quattro; per ciascun gruppo dice: "passano insieme nel mondo, ciascuno seguendo la propria inclinazione e conclude dicendo: "Questi sono i comportamenti della generalità degli uomini. Non sono identici per l'apparenza ma sono eguali nella Via, che si riconduce al decreto celeste" [19].
Ora, di per sé, il grande Tao non può essere detto o indicato: ciò che appare e che può essere detto o indicato è il Tao particolare di una cosa o di un fatto. Il grande Tao, per mantenere la sua qualità di "condizione di possibilità" per ogni Tao particolare, deve tenersi nascosto [20] e vuoto [21]. Se il grande Tao si potesse indicare o dire diverrebbe immediatamente un "piccolo Tao", il Tao di una cosa o di un evento particolare, il Tao di una parola o di un gesto individuale. D'altra parte si è visto con l'aneddoto del cuoco Ting che una cosa e un evento, realizzando il proprio Tao, ossia essendo se stessi in condizioni di spontaneità, realizzano anche il grande Tao: ciò significa che quest'ultimo non può esistere se non nella costellazione infinita delle determinazioni; ciò comporta che può essere considerato nascosto solo "astrattamente", cioè solo come deno minatore comune ricavato dalla molteplicità infinita delle determinazioni. Quindi il grande Tao: a) non può essere assolutamente palese perché, per esserlo, dovrebbe determinarsi in qualcosa di particolare; b) non può essere assolutamente nascosto perché, se così fosse, non se ne potrebbe parlare e non si potrebbe nemmeno pensarlo. Riprendendo le famose metafore del vaso, della finestra e del mozzo contenute nel capitolo XI dei Tao Tê Ching, si può dire allora che se il Tao come vuoto fosse assoluto, ossia separato dalle funzioni dei vaso, della finestra e del mozzo, non esisterebbero né vaso, né finestra né mozzo; d'altra parte, se il Tao come vuoto si determinasse completamente nel vaso, nella finestra e nel mozzo, al punto da identificarsi con questi oggetti e con le loro funzioni, esso non esisterebbe. E Tao come vuoto è invece condizione di possibilità di questi oggetti e delle loro funzioni, &e grave; il loro "trascendentale": in tal senso esso è simultaneamente universale-trascendente e individuale-immanente, proprio come l'aria è diffusa, comune, "universale" e, contemporaneamente, propria del respiro di ogni essere vivente [22]. Il Tao non è dunque nascosto come se fosse un Assoluto trascendente o una divinità separata dal mondo, ma nel senso che non è immediatamente manifesta la connessione tra universale e particolare che lo costituisce.
Analogo ragionamento può esser fatto a proposito del concetto di physis usato da Eraclito. Per cogliere l'analogia è tuttavia necessario innanzi tutto sgombrare il campo dagli equivoci che potrebbero sorgere dalla etimologia privilegiata da Heidegger secondo la quale il termine physis deriverebbe dalla radice pha- e sarebbe da ricondursi nell'area semantica di pháino e pháinomai e dunque ai significati di "mostrare" e "mostrarsi" [23]. Il termine physis deriva in realtà dalla radice phy- che rimanda ai significati concentrati attorno al verbo phyo che indica, transitivamente, l'azione di "nutrire", "far crescere (qualcosa)" e, intransitivamente, l'attività di "nutrirsi", "crescere" [24]. La Natura, dunque, è ciò che nutre le cose, che le fa crescere, ma, contemporaneamente, è anche il modo in cui le cose, nutrendosi, crescono; ossia, in altri termi ni, essa è anche la "natura propria" di ciascuna cosa, il suo proprio modo d'essere che coincide come si vedrà meglio più avanti col proprio modo di divenire, di trasformarsi, di crescere. Ora, venendo ad Eraclito, abbiamo un solo frammento in cui esplicítamente si parla di physis, ed è un frammento tra i più enigmatici: "La natura ama nascondersi (physis kryptesthai philéi) [25]. Alla luce della precisazione etimologica appena ricordata viene da chiedersi: quale natura ama nascondersi? Quella generale che nutre ogni cosa, o quella propria a ciascuna cosa, a cui accenna lo stesso Eraclito nel frammento n. 1? [26]. Non troppo nascosta deve essere questa seconda, dato che la "natura propria di ciascuna cosa" per lo più appare chiaramente nell'essere una cosa quella che è e non un'altra . Più incline a nascondersi in particolare ai tempi di Eraclito in cui le scienze naturali non avevano fatto grandi passi oltre la soglia dell'animismo appare la natura in generale, quella Natura universale che prenderà poi vari nomi: "Leggi di Natura", "Ordine universale", "Principi di Natura", ecc. Tuttavia ciò che da sempre risulta più nascosto, più segreto, più difficile da cogliere e da studiare, è il fatto che la Natura universale e le nature particolari, ossia ciò che fa crescere e i modi di ciò che cresce non sono disgiungibili: ciò che fa crescere non potrebbe darsi senza le infinite cose che fa crescere, né queste potrebbero esistere senza quello. Ciò che la natura nasconde non è la sua essenza universale né i suoi modi particolari, ma il nesso che lega quella a questi, proprio come, a proposito dei Tao, ciò che si nasconde non è il grande Tao né il Tao di ciascuna cosa, ma il nesso tra il primo e il secondo.E’ un frammento di Eraclito che aiuta a compre ndere il carattere connettivo della physis: "Connessioni: intero e non intero, convergente divergente, consonante dissonante: e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose" (syllápsies óla kai óla, sympherómenon diapherómenon, synádon diádon, kai ek pánton én kai ex enós pánta) [28]. L'interessante di questo frammento non sta tanto nella presentazione del concetto di syllápsis già di per sé interessante perché, come si vedrà, è assimilabile a quelli di lógos xunós e di armoníe aphanés ma sta nel fatto che la connessione è relativa a coppie di contrari: ciò significa, alla. luce di quanto abbiamo detto finora, che la Natura universale non è una sostanza semplice che si determina secondo un andarnento "verticale", come se essa stesse sotto o sopra e, in ogni caso, pr ima delle nature particolari, ma si dispiega "orizzontalmente" nella molteplicità infinita dei contrari, delle differenze, delle opposizioni. Physis non è dunque ente metafisico che si incarna ora in questa ora in quella creatura dell'universo, ma è energia diffusa in quanto forza che fa crescere, presente in ogni essere vivente: ed è forza che fa crescere mediante una dinamica differenziale, attraverso connessioni di contrari.
La forma della syllápsis interessa la Natura anche per un secondo aspetto o, per meglio dire, ad un secondo livello: infatti la Natura non è solo energia che produce enti o eventi mediante connessioni di contrari ma è la condizione d'esistenza di ogni possibile connessione. La syllápsis, cioè, non si stabilisce soltanto tra le singole cose contrarie o tra aspetti contrari di ciascuna cosa, ma anche tra le cose e ciò che rende possibile ogni syllápsis. Il frammento di Eraclito, infatti, per spiegare dove agisce la connessione indica innanzitutto una serie di contrari ("intero non intero, convergente divergente" ecc.) e specifica poi la relazione tra le cose e l'Uno ("e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose"): ciò che la Natura ama nascondere di sé è la capacità di produrre cose ed eventi secondo la regola dei contrari, ma è anche la relazione intrinseca tra sé e le co se. Ciò che, in definitiva, la natura ama nascondere è costituito proprio da queste due modalità di syllápsis: le connessioni tra le cose che essa continuamente produce, e la connessione tra le infinite connessioni e se stessa come energia infinitamente producente. A questo riguardo è importante che Eraclito affermi "da tutte le cose l'uno", perché ciò significa che l'uno, la Natura, non è un ente metafisico che esiste separato dalle cose, nelle quali, in un secondo momento, si manífesta, ma è un universo costituito dalle cose stesse.
Tuttavia la Natura non è riducibile alla somma di tutte le cose: non solo perché non si dà somma di infinite cose, ma perché la Natura è condizione d'esistenza delle infinite cose, così come il numero uno è condizione d'esistenza degli infiniti numeri. Il "mistero" della connessione di primo livello (tra le cose) e di secondo livello (tra la Natura e le cose) si chiarisce ulteriormente se ci si rifà alla metafora taoista del vuoto usata nel racconto del cuoco Ting: la realizzazione del Tao nell'arte della macellazione consiste nel saper utilizzare il contrasto pieno-vuoto, ma anche nel sapere che il vuoto è uno, comune tanto all'oggetto (il bue) quanto al soggetto (il cuoco) che si fa vuoto per meglio cogliere e percorrere i vuoti dell'oggetto. Parimenti la funzione e, quindi, l'esistenza del vaso, della finestra, del mozzo, è data dalla relazione di contrasto, dalla syllápsis tra pieno e vuot o, ma, nel contempo, il vuoto è uno nel senso che è comune condizione di funzionalità, ossia di esistenza, di ogni cosa. Analogamente al Tao, la physis è "natura propria" di ciascuna cosa secondo il modo della syllápsis dei contrari e, contemporaneamente, è Natura universale in quanto condizione d'esistenza comune alle infinite cose. Quel "contemporaneamente" ha evidentemente un valore radicale: significa che il grande Tao, la natura universale, non è causa degli infiniti Tao particolari, delle singole "nature proprie", ma è costituito da essi; d'altra parte i singoli Tao, le "nature proprie", non sarebbero senza il grande Tao, senza la Natura universale che le "nutre". E’ questo il senso delle parole di Eraclito "da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose"; senso che si ritrova, identico, nel Chuang Tzu: "le diecimila creature ed io siamo l'Uno" [29].
Ora, se si prende il capitolo II del Tao Tê Ching, si può trovare un discorso assai simile a quello contenuto nel frammento 19 di Eraclito: "essere e non essere si danno nascita fra loro/ facile e difficile si danno compimento fra loro/ lungo e corto si danno misura fra loro/ alto e basso si fanno dislivello fra loro/ tono e nota si danno armonia fra loro/ prima e dopo si fanno seguito fra loro" [30]. Ciò che importa qui, come nel caso delle opposizioni indicate da Eraclito (intero-non intero ecc.), non è la natura dei termini delle opposizioni, ma la qualità del rapporto di opposizione, ossia la natura della syllápsis: non si tratta infatti di un contrasto statico, dove i contrari si fronteggiano nella loro reciproca estraneità, ma di un contrasto dialettica dove un termine sussiste solo perché sussiste il termine opposto, dove, cioè, si realizza dinamicamente una complementarità ontologica. E questo, evidente, il senso dei verso "essere e non essere si danno nascita fra loro"; senso che diventa chiarissimo da questo passo del Chuang Tzu che anticipa di quasi un millennio il centro della dialettica hegeliana:
Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso. Questa verità non la si vede a partire dall'altro, ma si comprende partendo da se stessi. Così è stato detto: l'altro proviene da se stesso, ma se stesso dipende anche dall'altro. Si sostiene la teoria della vita, ma in realtà la vita è anche la morte e la morte è anche la vita. Il possibile è anche impossibile e l'impossibile è anche possibíle. Adottare l'affermazione è adottare la negazione; fare propria la negazione equivale a far propria l'affermazione. Così il santo non adotta alcuna opinione esclusiva e s'illumina dal cielo. E’, anche questa, una maniera di far propria l'affermazione. Se stesso è anche l'altro; l'altro è anche se stesso. L'altro ha un proprio concetto dell'affermazione e della negazione. C'è davvero una distinzione tra l'altro e se stesso, o non c'è affatto? Che l'altro e se stess o cessino di opporsi, questo è il perno del Tao. [31]
Si chiarisce allora, alla luce di questo passo straordinario, anche l'apparente contraddizione tra il fatto che il Tao è "madre delle diecimila creature" [32] e il fatto che "sembra il progenitore delle diecimila creature" [33] : il Tao è, certo, ciò che fa nascere le diecimila creature, ma non come appare superficialmente ai più secondo il modo di un Sommo Creatore diverso per natura e superiore per valore rispetto alle creature, ma come è chiaro al saggio che ne coglie la dinamica nascosta secondo il modo in cui le "creature" stesse si danno reciproca nascita, che è il modo della connessione dinamica tra opposti complementari. Il Tao, come la physis, non è trascendente rispetto alle cose: è invece la "via ", il modo in cui le cose esistono e, contemporaneamente, la condizione per cui esistono; questa "via", questo modo è, in Eraclito, quello della syllápsis dei contrari e, nel taoismo, quello della "nascita reciproca" [34]. Nulla meglio della polarità Yin/Yang prototipo di ogni polarità indica l'impossibilità di intendere il Tao come qualcosa di trascendente [35]. Com'è noto Yin e Yang in origine designavano, rispettivamente, la parte in ombra e la parte al sole di una montagna. Ora niente di meglio di questa esemplificazione empirica mostra che la connessione di complementarità tra contrari non è disgiungibile dall'"oggetto" a cui si riferisce: il lato in ombra e il lato al sole sono inseparabili non soltanto tra loro, poiché appartengono alla medesima montagna, ma anche dalla montagna stessa, la quale non può darsi se non avendo un lato in ombra e uno al sole, così come una giornata non può esistere senza avere una parte cli giorno e una di notte [36]. Quindi Yin e Yang non sono derivazioni del Tao, ma suoi costitutivi modi d'essere: anzi, a rigore, si dovrebbe dire "suo costitutivo modo d'essere", dato che il Tao non si dà mai soltanto nella forma Yin o soltanto in quella Yang, ma, sempre, in un nesso di polarità reciproca di Yin e Yang. Parimenti, i contrari eraclitei non derivano dalla physis come sue "creature", ma costituiscono, nella loro reciproca tensione dinamica, il modo di funzionamento della physis, ossia il suo lógos. Ora proprio il termine 1ógos denota il modo d'essere e di operare della physis non soltanto in senso generico, ma in quel senso specifico che emerge grazie alla mediazione del concetto di syllápsis: infatti il modo d'essere e di operare della Natura è connotato, come si è visto, da una serie infinita di connessioni, e il significato a cui rimanda il termine lógos è proprio "rapporto", "nesso" [37]. Quindi lógos, al pari di syll ápsis, è termine e concetto che sta ad indicare il modo d'essere e di operare della physis. Lo stesso Eraclito sembra voler ribadire un'analogia di fondo tra lógos e syllápsis, tra l'attività dei emettere insieme", "legare" (léghein) e quella del "raccogliere", "riunire" (syllambánein): nel frammento 6, infatti, sostiene che, dando ascolto al lógos, "è saggio dire che tutte le cose sono una" [38] ; ciò equivale a dire che, non appena si comprende il nesso che lega tutte le cose, si comprende che "da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose" (fr. 19). Nel frammento 7, poi, Eraclito rafforza ulteriormente il carattere connettivo dei lógos, dicendo che esso è xynós, "comune" nel senso di "appartenente ad ogni cosa" [39]. Quindi il lógos, proprio in quanto ness o, connessione, syllápsis, è xynós, comune a tutte le cose, ossia è ciò che garantisce la relazione tra tutte le cose. Si è visto peraltro che tale relazione non è accidentale, non si instaura tra cose che già esistono indipendentemente da essa, ma è sostanziale, nel senso che le cose esistono solo perché sono in relazione di contrasto complementare [40]; si è visto anche che questa relazione di contrasto complementare è il modo d'essere e di operare della physis. Quindi risulta evidente che la realtà a cui rimandano i concetti di lógos, xynós, syllápsis è quella di un operare secondo connessioni che è proprio della physis.
Se alla Natura è proprio il connettere che si ritrova al fondo dei léghein, dello xynéin e del syllambánein, ad essa appartiene anche l'armózein che sta alla base dell'armoníe di cui parla Eraclito nei frammenti 26 e 27. Ed è proprio nel frammento 27 che si trova il miglior commento alle parole "la natura ama nascondersi": "Armonia invisibile della visibile è migliore".
Ora, ricordando che alla base di armoníe sta il verbo armózein che significa "connettere", "collegare", e che la modalità costitutiva dell'essere e dell'operare della Natura è proprio il connettere che si ritrova al fondo di lógos, di xynós e di syllápsis, si può dire che ciò che la Natura ama nascondere è la propria struttura e la propria funzione connettiva.
A questo punto potrebbe sorgere un problema: se syllápsis, lógos e armoníe indicano tutti la funzione della Natura di connettere, collegare, riunire, come si può sostenere che anche il contrario, ossia pólemos, il conflitto, il contrasto, sia xynós, comune, secondo quanto Eraclito dice al frammento 15? [41] Innanzitutto si dovrebbe osservare che, in generale, il conflitto non è che una forma specifica di relazione, di connessione; ma, in particolare, si deve far notare che in Eraclito è proprio la tensione che caratterizza il conflitto a produrre armoníe, come risulta chiaramente dal frammento 20 ("Non intendono come da sé discordando seco stesso concordi") e, ancor più chiaramente, dal frammento 26 ("Armonia che da un estremo ritorna all'altro estremo come nell'arco e nella lira") e dal frammento 24: "Ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia" [42]. Il contrasto, pólemos, tra le estremità che vengono tenute insieme nella lira e nell'arco, è proprio ciò che consente non solo il realizzarsi della forma di questi due strumenti, ma anche e soprattutto il dispiegarsi della loro funzione: senza contrasto le due estremità non potrebbero stare assieme, "armonizzarsi", e senza questa "armonizzazione" di contrari lira e arco semplicemente non esisterebbero [43]. Questa armonìa, proprio perché si fonda sul conflitto, è invisibile (afanés): l'armonia visibile si fonda invece su un'omogeneità statica, come nel caso della simmetria. E proprio perché possiede un carattere conflittuale è migliore, "più forte" (kréisson): l'armonia visibile, fondata sull'identità e sull'immobiiítà degli elementi che essa tiene assieme, non produce nulla, si dà come puro oggetto di contemplazione; al contrario l'armonia invisibile, in quanto fondata sulla differenza e, quindi, sulle tensioni da questa prodotte, genera azione, dà origine a movimenti molteplici, siano essi i diversi tiri dell'arco o le varie note della lira.
A questo punto, allora, si può ribadire che ciò che la Natura "ama nascondere è la propria struttura e funzione connettiva denotata dai concetti di lógos, xynós, syllápsis, armoníe; ma si deve anche aggiungere che tale struttura e funzione connettiva ha come carattere fondamentale, costitutivo, il conflitto, pólemos: esso è alla base dei léghein, dello xynéin, del syllambánein, dell'armózein; ed è esso che rende migliore l'armonia invisibile rispetto a quella visibile. Si può dunque affermare che ciò che la Natura "ama nasconderei non è solo la propria capacità di produrre connessione, ma anche la qualità conflittuale di tali connessioni [44].
La logica che presiede al discorso di Eraclito, contenuto dei frammenti 20, 24, 26, si ritrova, pressoché identica, non solo ai vv. 7-12, già ricordati, dei capitolo II del Tao Tê Ching ("essere e non-essere si danno nascita tra loro", ecc.), ma anche ai vv. 1-6 del capitolo LXXVII: "La Via dei cielo/ com'è simile all'armar l'arco/ Quel ch'è alto viene abbassato/ quel ch'è basso viene innalzato/ Quel che eccede viene ridotto/ quel che difetta viene accresciuto/ La Via del Cielo/ è di diminuire a chi ha in eccedenza e di aggiungere a chi non ha a sufficienza". Con l'operazione di armare l'arco, nella quale si esplicita la tensione che tiene legate le due opposte estrernicà, si produce "da più bella armonia" di cui parla Eraclito al frammento 24: mediante una "discordia" si produce quella "concordanza" a cui si allude nel frammento 20. Per Eraclito questa connessione dialettica che produce a rmonia mediante conflitto non è un modo tra i tanti con cui opera la Natura, ma è il modo fondamentale con cui essa si dispiega producendo cose ed eventi: "il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re" (frammento 14). Analogamente, per i taoisti, il nesso tra Yin e Yang non è un nesso tra gli altri, non è uno dei tanti rapporti tra opposti, ma è il prototipo di ogni rapporto oppositivo, anzi, l'unico nesso in grado di spiegare la costituzione delle cose e la formazione degli eventi: "Le creature volgono le spalle allo Yin/ e volgono il volto allo Yang/ il ch’i infuso le rende armoniose" [45]. Il Chuang Tzu è ancora più chiaro al proposito, ed illustra anche le diverse modalità in cui il nesso fondamentale tra Yin e Yang si dà: "Lo yin e lo yang si riflettono, si sovrappongono, si regolano l'un l'altro; le quattro stagioni s'av vicendano, si danno origine e fine l'un l'altra. Da ciò sorgono potenti l'attrazione e l'odio, da ciò si hanno immutabili la separazione e l'unione del maschio e della femmina. Sicurezza e pericolo si danno il cambio a vicenda, prosperità e avversità si originano a vicenda, agio e disagio si compensano a vicenda. Da essi si formano l'unione e la dispersione. Questi sono i nomi di cui è riscontrabile la realtà e l'essenza. Regolano reciprocamente l'ordine del loro susseguirsi, inducono reciprocamente il volversi dei loro turni. Quando sono giunti au'estremo limite v'è il ritorno, quando l'uno è giunto alla fine l'altro comincia. Questo è quanto le creature ottengono, quanto le parole esprimono interamente e quanto la sapienza raggiunge: è la norma suprema. L'uomo che guarda il Tao non prosegue fin dove cessano né risale fin dove cominciano. Qui è dove s'arresta ogni discussione" [46] . Lo Yin e lo Yang operano dunque secondo la modalità dell'alternanza, come nell'esempio taoista dei giorno e della notte (CT, VII, XXI, 146), e dei prima e dopo che "si fanno seguito fra loro" (TTC, II, v. 12); modalità che è presente nel frammento 41 di Eraclito: "Le cose fredde si scaldano e le calde si fanno fredde".
Lo Yin e lo Yang operano poi secondo la modalità della complementmtà, come nei casi, già ricordati, del nesso sé-altro da sé (CT, I, II, 11) e di quello tra oriente e occidente (CT, VI, XVII, 108), e come nel caso del nesso freddo-caldo: "Il sommo yin è algore, il sommo yang è calore: l'algore s'alza verso il cielo, il calore si diffonde verso la Terra. L'intreccio di quei due forma l'armonia e le creature vengono alla vita" [47]; modalità della complementarità presente anche nei frammenti di Eraclito: nei già citati 24 e 26, e nel frammento 35: "La malattia rende piacevole la salute e di essa fa un bene, la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo".
Yin e Yang operano inoltre secondo la modalità della continuità; Lieh Tzu, a questo proposito, afferma: "Il principio è la fine di qualcosa, la fine è il principio di qualcos'altro" [48] ; ed Eraclito, in consonanza quasi letterale, dice: "Nel circolo principio e fine fanno uno" [49]; ancora più chiara si manifesta questa modalità nel frammento 22: "La stessa cosa sono il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi mutando trapassano in quelli e quelli ritornano a questi" [50] ; queste parole di Eraclito sembrano ispirare quelle di Chuang Tzu: "Per chi conosce la gioia celeste la vita è un moto secondo natura, la morte un cambiamento di forma" [51] ; "Il crescere e il decrescere, il pieno e il vuoto, quando l'uno ha fíne l'altro ha principio" [52].
A questo punto uno schema fondamentale di analogie tra il pensiero di Eraclito e quello dei taoisti classici appare sufficientemente delineato: la physis, al pari del Tao, si configura come produzione incessante di nessi; il modo di questo produrre è nascosto solo nel senso che non è immediatamente evidente che la "natura propria", ovvero il "Tao di ciascuna cosa", sono contemporaneamente la Natura in generale, ovvero il grande Tao; in ogni caso, sia per la physis che per il Tao la produzione di nessi avviene attraverso mediazione di contrari che si alternano, si bilanciano, si rendono complementari.
Per delineare questo schema nel modo più conciso e coerente possibile sono stati trascurato alcuni punti fondamentali in cui i due orizzonti di pensiero si incontrano. In particolare è da ricordare che, tanto per Eraclito che per i taoisti, l'universo è senza inizio e senza fine: "Questo cosmo né alcuno degli dei lo fece né alcuno degli uomini, ma fu sempre, ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con misura e si spegne con misura" [53], secondo le parole di Eraclito; e secondo le parole di Chuang Tzu, ancora più concise: "Non v'è passato né presente, non v'è principio né fine" [54] ; o, secondo quelle di Lieh Tzu: "La vita a cui è stata data vita è mortale, ma quello che dà vita alla vita non ha mai fine" [55] ; o, secondo quelle del Tao Tê Ching: "Il Cielo è perpetuo e la Terra perenne" [56] ; "Ad andargli [al Tao] incontro non ne vedi l'inizio/ ad andargli appresso non ne vedi il poi" [57].
Notevolissima rilevanza hanno inoltre le consonanze che riguardano il tema dell'impermanenza di ogni cosa: ad Eraclito che dice "La stessa cosa sono il vivo e il morto" (E, 22, 1) sembra replicare Chuang Tzu con le parole "non siamo mai morti e non siamo mai vivi" [58] ; Eraclito, dicendo che "nello stesso fiume entriamo e non entriamo" (E, 16), che "il fiume in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque che scorrono" (E, 52), che "il sole è nuovo ogni giorno" (E, 49), sembra anticipare Chuang Tzu: "Sotto il cielo tutto affonda e riemerge senza mai perire" [59], e sembra riprendere il Tao Tê Ching: "un turbine di vento non dura una mattina/ un rovescio di pioggia, non dura una giornata./ Chi opera queste cose?/ Il Cielo e la Terra./ Se perfino il Cielo e la Terra non possono persistere/ tanto più lo potrà l'uomo?" [60].
Infine il tema della relatività, sul quale Eraclito e Chuang Tzu convergono in maniera quasi letterale. Il primo, infatti, ci ha lasciato scritto: "Il mare è l'acqua più pura e la più incontaminata: i pesci la bevono e li tiene in vita, agli uomini è imbevibile e dà la morte" [61] e il secondo. "I pesci vivono stando nell'acqua, gli uomini stando nell'acqua muoiono" [62].
Se sul tema dell'infinità dell'universo, su quello dell'impermanenza di ogni cosa e su quello della relatività il confronto tra Eraclito e il taoismo classico produce convergenza esplicite che toccano talvolta i livelli dell'equivalenza, vi è peraltro un tema attorno al quale la convergenza, pur essendo meno esplicita e radicale, appare ancor più interessante: il tema della saggezza. Innanzitutto Eraclito e i taoisti classici si incontrano nella condanna dell'erudizione che scambia il conoscere molte cose col sapere molto. E’ nota la critica di Eraclito alla polymathía. "Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto" [63]. Ancor più radicale e insistente la critica taoista ad ogni forma di conoscenza formale e, in particolare, a quella praticata dai confuciani: nel Tao Tê Ching si ricorda che "quando apparvero intelligenza e sapienza s'ebbero le grandi imposture" , e che tralasciando la santità e ripudiando la sapienza "il popolo si avvantaggerà" [65] per cui "il governo del santo svuota il cuore al popolo e ne riempie il ventre" [66] ; e Chuang Tzu proclama con forza: "Grande, invero è il disordine che reca nel mondo l'amore per la sapienza. […] La sapienza superficiale conturba il mondo" [67]. Questa critica alla "sapienza superficiale, alla cultura formale, si specifica ulteriormente in una critica alla tradizione, alla cultura intesa solo come patrimonio di conoscenze sacre, immobili e immutabili: questa critica è rintracciabile in Eraclito, nel frammento 95, dove afferma che "non bisogna comportarsi come figli dei padri"; e, ancor più, nel frammento 126, quando, dicendo "ho indagato me stesso", implicitamente esclude che la propria sapienza si sia costruita sulla base di dottrine precedenti, di tradizioni consolidate. Una critica ancor più esplicita si trova in Chuang Tzu, quando chiede: "Sei capace di custodire in te l'unità? di non smarrirti? di capire la fortuna e la sfortuna senza bisogno di divinazione? di restare nella tua sorte? di non seguire le antiche tracce?" [68].
Le concordanze tra il pensiero di Eraclito e quello taoista non si danno tuttavia soltanto in negativo, sul piano critico, ma, anzi, divengono ancora più forti quando riguardano, in positivo, la proposta di un comune modello di saggezza. Per quanto sostiene Eraclito al proposito sono decisivi due frammenti, il 6, dove sta scritto che "è saggio dire che tutte le cose sono una", e il 13, dove è detto che "una è la sapienza, conoscere la mente che per il mare del Tutto ha segnato la rotta del Tutto": la saggezza, dunque, sta nel saper cogliere ciò che la natura "ama nasconderei di sé, ossia la struttura e la funzione di syllápsis mediante la quale ogni cosa interagisce con le altre in un sistema infinito di "armonie conflittuali"; in altri termini, saggezza è capacità (potentia, virtus, tê) di cogliere il fatto che "tutte le cose sono una" nel senso che "da tutte l e cose l'uno e dall'uno tutte le cose" [69]: cogliere questo significa conoscere il modo con cui opera la "mente dei Tutto", ossia il lógos con cui opera la physis. Analogo il "ragionamento" taoista: "le diecimila creature ed io siamo l'Uno" [70]; questa connessione universale costituisce "l'orditura dei Tao" [71] ; questa "orditura del Tao" è prodotta e continua a prodursi secondo la modalità per cui "essere e non-essere si danno nascita fra loro" [72]; sapienza è saper cogliere questa "orditura" e il modo con cui si produce: perciò "la grande sapienza tutto abbraccia, la piccola sapienza distingue ; per questo la "sapienza collega" [74]. Ma la physis, al pari dell'orditura del Tao, non è l'oggetto di contemplazione o di indagine dei saggio che sta, rispetto ad esso, in una posizione esterna o, addirittura, superiore: saggezza, infatti, significa anche saper cogliere se stessi come elementi di un sistema infinito di syllápsies, come "nodi" di un'"orditura infinita". Questa precisazione sembra chiaramente implicita nel frammento di Eraclito che dice "Bisogna spegnere la dismisura (hybrin) più che le fiamme di un incendio" [75] : se la realtà è costituita cla un insieme infinito di connessioni prodotte dalla physis, l'uomo in generale, ma anche il saggio, è un elemento particolare di tale insieme, uno degli infiniti casi di connessione, non il centro di un universo finito che può formare e dominare a piacere, con "tracotanza" (hybris); anzi: la saggezza del saggio sta proprio nello "spegnere" questa tracotanza, questa dismisura che tende a trasformare un caso di connessione nel centro di tutte le connessioni. Che la saggezza consista nel riconoscere la connessione tra le cose e nel frenare la hybris è tema cos tante degli scritti taoisti: "Appaiono separate o unite, perfette o guaste, le creature non hanno perfezione o guasto, ma sono ancora identiche fra loro. Solo chi ha un'intelligenza penetrante riconosce che sono identiche fra loro. Pertanto costui non s'ingegna ma si rimette a ciò che è invariabile: l'invariabilità è l'utilità, l'utilità è comprensione, la comprensione è ottenimento. Giunto all'ottenimento ha finito e quindi s'arresta. Arrestarsi senza sapere perché è così dicesi Tao" [76]. Il saggio, colui "che ha un'intelligen za penetrante, non coltiva l'erudizione, non "s'ingegna" ad apporre etichette, ad abusare delle parole [77], a perpetuare pregiudizi [78] : non presume di "sistemare" la realtà una volta per tutte, si limita a conoscere e seguire "la natura delle cose" [79].
Questa consonanza di fondo tra l'idea di saggezza presente in Eraclito e quella ribadita dai taoisti non può che produrre un atteggiamento comune anche nei confronti dell'impossibilità di comunicarla mediante i semplici strumenti dei sapere concettuale e dei codici linguistici: pertanto Eraclito che constata come "non intendono gli uomini questo Discorso che è sempre né prima di uclirlo né quando una volta lo hanno udito" [80], sembra essere lo stesso che, nel Tao Tê Ching, ha lascia to scritto: "Le mie parole con assai facilità s'intendono/ e con assai facilità si attuano, ma nessuno al mondo sa intenderle,/ nessuno al mondo sa attuarle" [81].
La concordanza di Eraclito e dei taoisti nel trovare difficoltà a comunicare il loro "facile" discorso non è casuale né superficiale: essa si radica in un comune modo d'intendere l'origine e la struttura della saggezza. Eraclito, infatti, nel frammento 76 connette direttamente la saggezza al conoscere se stessi [82] e, nel frammento 126, dice "ho indagato me stesso" (edizésamen emeoytón): ciò significa che il costruire la saggezza coincide con l'indagare se stessi. Considerazioni analoghe troviamo nei testi taoisti: "Quando il santo governa cura forse l'esteriore? Si corregge e poi agisce, sicuro di riuscire nelle sue imprese" [83] ; "Correggere se stessi, null'altro. La pienezza della felicità sta nel realizzare le proprie aspirazioni" [84] ; "Chi compie viaggi esteriori cerca la completezza nelle cose, chi si dà alla contemplazione interiore trova la sufficienza in se stesso" [85] ; "Senza uscir dalla porta/ conosci il mondo/ senza guardar dalla finestra scorgi la Via del Cielo/ Più lungi te ne vai meno conosci" [86] "Chi ostruisce il suo varco/ e chiude la sua porta/ per tutta la vita non ha travaglio/ chi spalanca il suo varco/ ed accresce le sue imprese/ per tutta la vita non ha scampo" [87]. A prima vista le affermazioni eraclitee e l'insistenza taoista sulla necessità di volgersi au'interiorità sembrano voler suggerire una via solipsistica alla saggezza [88]. Una simile conclusione sarebbe tanto affrettata quanto insostenibile, a meno di non voler considerare questi passi di Eraclito e dei taoisti in modo astratto, isolandoli da altri passi che ne completano ed approfondiscono il significato. Per questo lavoro di completamente e di approfondimento è sufficiente, nel caso di Eraclito, ricordare il contenuto della seconda parte del frammento 6: è saggio dire che tutte le cose sono una [89]. Ora l'io, il soggetto e la sua interiorità non si sottraggo no alla legge universale, al lógos xynós in forza del quale "tutte le cose sono una"; in altri termini, anche il "se stessi" del frammento 76 e il "me stesso" del frammento 126 si costituiscono, al pari di "tutte le cose", non come elementi isolati e fissi, ma come risultati provvisori di syllápsies sempre diverse, come prodotti "aperti" di connessioni sempre nuove. Analogamente, i passi taoisti appena citati, apparentemente favorevoli ad una via interiore alla saggezza, esplicano il loro significato più autentico e integrale se vengono letti e pensati alla luce dei passi, già ricordati, in cui è detto che "le diecimila creature ed io siamo l'Uno" [90] e che "ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso"". Anche qui, come nel caso di Eraclito, il significato è chiaro: la soggettività, come qualsiasi altro "essere", si costituisce solo in rapporto ad altri "esseri", in una dialettica di "nascita reciproca". Ciò non entra affatto in contraddizione col richiamo all'interiorità per la costruzione della saggezza: l'interiorità è un campo di indagine particolarmente adatto - forse solo perché più prossimo alla soggettività - per osservare struttura e funzionamento della realtà. Indagando se stessi non si perviene a un nucleo interiore saldo e puro - come, per esempio, nel caso del cogito ottenuto da Cartesio mediante dubbio metodico - ma, al contrario, si giunge a constatare la struttura dinamica e relazionale (dinamica perché relazionale) dell'io [92]. La saggezza, in definitiva, consiste nel saper cogliere questa struttura: al contrario la polymathía, per Eraclito, e la "sapienza superficiale", per i taoisti, concepiscono la realtà come un insieme di cose irrelate e fisse, deserivibile con qualche sistema di definizioni isolat e e immutabili. Il processo con cui si diventa saggi non comporta dunque la perdita della soggettività, ma, al contrario, l'ottenimento di una soggettività che è tanto più ampia quanto più manifesta di essere costituita e di svilupparsi mediante connessioni infinite [93]. In tal senso si può equiparare, con Eraclito, la saggezza alla mania [94] e, con i taoisti, la saggezza alla condizione di vuoto (wu) [91]; con l'avvertenza, però, che ciò non significa affatto un cedimento a forme di irrazionalità, ma produzione di una razionalità più complessa, per la quale non soltanto il mondo ma anche il soggetto umano è solo in quanto si trasforma mediante infinite connessioni conflittuali: per essa la Natura (physis) non equivale a Materia (hyle), ma a ciò che cresce e fa crescere mediante interazioni (syllápsies) di differenze; per essa Tao non equivale a Nulla, ma al modo con cui ciascuna cosa nasce, vive e muore essendo sempre, contemporaneamente, sé e altro da sé.